[Hilde Kieboom]: "Santità, Beatitudine, Eminenze,
Eccellenze, cari amici, adesso ascoltiamo volentieri le parole di Andrea Riccardi, fondatore
della Comunità di Sant'Egidio. Lo ringraziamo per aver avuto la visione di capire la forza
che emanava dallo storico incontro di assisi dall'86, e per aver creato questo
movimento di uomini e di donne, di amici della pace, che ha portato e porterà frutti di
pace e di riconciliazione nel mondo intero." [Andrea Riccardi]: "In questi momenti, il
titolo del nostro convegno sembra appena un augurio. La realtà di oggi non è la pace.
Non sembra nemmeno il futuro. La guerra è tornata sul territorio europeo tra Russia
e Ucraina. L'architettura del Medio Oriente è saltata in due anni, mentre i profughi
fuggono perseguitati dal Nord Iraq (ascolteremo una voce in proposito, ma colgo l'occasione
per salutare con partecipazione il Patriarca Sako, che ha vissuto a lungo il nord Iraq
e vive ora il dramma di un popolo di rifugiati). La Siria è in preda a una guerra dilaniante
e inumana. Storie dolorose che nascono anche dalla riabilitazione dello strumento della
guerra, e anche dalla commistione tra religione e violenza. In genere, si manifesta anche
un peggioramento rispetto alle modalità della guerra previste dalla convenzione di Ginevra
sui prigionieri e i feriti, nonché il diritto umanitario; guerre più disumane, se posso
dirlo. Lo si vede dall esibizione della crudeltà, crudeltà, in genere, fino a ieri nascoste,
da chi le commetteva e oggi usate come arma, in un tempo globale. Massacrare, far mostra
dell'orrore, donne e uomini umiliati, cacciati dalle loro case, denudati, fucilati o peggio;
bambini uccisi, giornalisti. Questo è il terrorismo: il culto della violenza che terrorizza
e conquista. La pace non sembra il futuro; non lo sembra anche in grandi città, specie
nelle periferie, dove domina la violenza diffusa delle mafie e della criminalità, quasi una
guerra civile. In tanti paesi del mondo (ho in mente alcuni paesi africani), lo stato
non protegge il cittadino che si ritrova nelle mani violente di gruppi criminali o pseudo-religiosi
(ne parlavamo ieri con il cardinal Onaiyekan, che saluto, come saluto tutti gli ospiti nigeriani).
Non evoco questi scenari per accrescere la paura. Il mondo globale - ce lo ha spiegato
bene e autorevolmente il professor Bauman - è una terra di tante paure; il professor
Bauman ha notato, tra l'altro, che la nostra generazione, pur essendo la più equipaggiata
tecnologicamente nella storia, è forse quella che ha più paura e sente più insicurezza.
L'uomo e la donna contemporanei si sentono isolati alla mercè di forze che possono aggredirli
da lontano; vivono quella che il grande studioso Mircea Eliade chiamava «la paura della storia».
Il cittadino, solo, associato, si sente incapace di fare la storia e nemmeno tenta; non ha
potere, la politica non ha più potere. L paura non è solo un sentimento, diventa,
talvolta, disprezzo per l'altro: altro di religione, etnia, diverso. La cultura del
disprezzo è antica come la storia dell'uomo, ma in questo tempo di globalizzazione ha una
sua riviviscenza impressionante. La paura genera violenza, talvolta violenza contrabbandata
come preventiva nei confronti della presunta aggressività altrui. Cari amici, in questi
giorni ci interroghiamo su pace e futuro, lo facciamo in Belgio a cento anni dall'inizio
della prima guerra mondiale, quando questo piccolo paese neutrale fu travolto da un conflitto
che nasceva lontano, mostrando che la guerra si contagia in un ambiente saturo di tensioni;
e da guerra locale, europea, diventò mondiale. E colgo qui l'occasione per ringraziare le
autorità e i nostri amici belgi della loro ospitalità, e per dire grazie a quanti hanno
lavorato per la preparazione di questo incontro, volontariamente ma con fervore: grazie! Un
pensiero particolare va, con molta simpatia, al caro amico, il vescovo di Anversa, Monsignor
Bonny, con cui abbiamo realizzato questo evento, e un pensiero alla Comunità di Sant'Egidio
del Belgio. Papa Francesco, qualche settimana fa, ha parlato dei conflitti contemporanei
come una terza guerra mondiale, ma a pezzetti, a capitoli. E proprio in questo scenario ci
poniamo la domanda: «La pace rappresenta il nostro futuro?». Ma chi siamo noi? Veniamo
da lontano - mi permetto di evocare il nostro cammino - dal primo grande incontro tra le
religioni, ad Assisi, la città di San Francesco, nel 1986, voluto da Giovanni Paolo II, al
tempo della guerra fredda: lo chiamiamo «Il cammino nello spirito di Assisi». Giovanni
Paolo II disse allora, cito: «Mai come ora, nella storia dell'umanità, è divenuto evidente
il legame tra un atteggiamento autenticamente religioso e il gran bene della pace», fine
della citazione. Religione e pace si compenetrano. Bisognava togliere fondamento religioso alla
guerra, alla violenza, negare la base di ogni guerra di religione. Noi abbiamo continuato,
dall'86, anno dopo anno dopo, raccogliendo uomini e donne di religione, umanisti, per
lavorare sulla delicata frontiera tra pace e guerra. Lo abbiamo fatto nella convinzione
che mai la guerra è santa e che solo la pace è santa. Abbiamo vigilato sulla frontiera
tra guerra e religione. Si creano pericolose miscele, come tra la fine del ventesimo secolo
e l'inizio del nuovo secolo, quando invalse l'abitudine di leggere i conflitti come guerra
di religione o di civiltà; una terribile semplificazione di fronte alla complessità
del mondo globale, semplificazione comoda per chi voleva un nemico, per chi non voleva
faticare a capire l'altro, ma anche - dobbiamo dirlo - per chi voleva fare la guerra, o ergersi
come nemico degli altri o del mondo. Guerre di religione? Uomini e donne spaventati si
rassicuravano trovando un nemico da combattere, o avidi di potere cercavano legittimazione
dalla religione. Lungo un cammino, dall'86, anno dopo anno, abbiamo chiarito che la pace
è una cosa troppo seria per farne affare di pochi; allora, Giovanni Paolo II disse:
«La pace è un cantiere aperto a tutti, non solo agli specialisti, ai sapienti e agli
strateghi», fine della citazione; da cui sgorga questo movimento di pace e di dialogo
che ha coinvolto umanisti e comunità di credenti. Puntualmente, ci siamo ritrovati davanti all'obbiezione,
di fronte ai conflitti in corso, «ma a che è servito il vostro dialogo?». Ma amici
cosa sarebbe il mondo senza dialogo!? Papà Francesco, qualche mese fa, visitando Sant'Egidio,
ha detto: «Il mondo soffoca senza dialogo». Sì, il dialogo tra le religioni, le culture,
le persone è la risposta per vivere insieme, in mondi sempre più complessi, compositi.
È una pratica quotidiana, è una cultura che diventa una proposta. Perché le guerre
lasciano sempre il mondo peggiore di come l'hanno trovato inizialmente. Basta guardare
gli ultimi due decenni: le guerre, nel mondo globale, hanno lasciato un'eredità avvelenata.
Io non lo dico per convenzione pacifista, ma lo dico per una chiara coscienza storica
di quello che è avvenuto: le guerre lasciano il mondo sempre peggiore; perché le guerre
distruggono gli uomini, i paesi, le vite umane. Il rifiuto della guerra non nasce da generico
pacifismo, ma dalla volontà di essere pacificatori, cioè affermare la via del dialogo. Eppure,
di fronte ai conflitti, le sedi istituzionali di dialogo sembrano logore, mentre la cultura
e la pratica del dialogo appaiono svalutate, come politically correct, come una proposta
senza passione; sono irrise dal macismo di chi sta riabilitando la violenza e la guerra.
Le religioni hanno una responsabilità decisiva. In questo mondo spaventato dalla crisi economica,
in questo nostro mondo ci vuole un soffio che rianimi la speranza, che guidi alla coscienza
di un destino comune. Perché le religioni mostrano che gli uomini fanno un unico grande
viaggio e hanno un destino comune; questa è una coscienza basilare, semplice come il
pane, e necessaria come l'acqua, quella di un destino comune da vivere nella diversità.
Diceva un'antropologa, Germaine Tillion, che ha conosciuto il lager nazista: «Tutti i
parenti, tutti differenti». Siamo tutti parenti, ma questa coscienza si perde nell'intrico
degli odi, degli interessi, nei fanatismi. Amici, bisogna rianimare i cantieri dell'unità,
soprattutto bisogna rianimare una tensione unitiva: tutti i parenti. Religioni e culture
possono rianimare questa coscienza. «Siate semplici con intelligenza», diceva il grande
Giovanni Crisostomo. Io ho in mente, in questo momento, due uomini di dialogo e di religione,
cari amici, due vescovi cristiani, Mar Gregorios Ibrahim e Paul Yazigi, e con loro padre Paolo
Dall'Oglio, rapiti da più di un anno in Siria, di cui non abbiamo notizie, e li voglio ricordare.
E colgo l'occasione di salutare, tra noi, il patriarca Ephrem capo della chiesa siriaca,
che è la chiesa di Mar Gregorios, un popolo credente, povero e indifeso, che per generazioni
ha conservato la pace senza armi; benvenuto Santità. Purtroppo le religioni sono, talvolta,
attratte dalla violenza, dal fanatismo disumano. Le religioni debbono riandare alla loro profonda
forza di pace, e questo si manifesta nell'incontro, nella generosità, nel coltivare la dimensione
spirituale dell'amicizia. La forza del cammino nello spirito di Assisi conferma solennemente
che non c'è guerra e violenza in nome di Dio. Lo diciamo all'interno delle nostre tradizioni
religiose, avvertendo che la violenza in nome di Dio è una bestemmia e tutte le tradizioni
religiose parlano di un Dio paziente, misericordioso, compassionevole, lento all'ira. Bisogna, in
questi tempi difficili, trovare l'audacia di ricordare che la pace è il nome di Dio.
E trovarci, oggi, in questo anniversario della prima guerra mondiale, di fronte allo scenario
difficile del conflitto, ci da la forza di affermare ancora che la pace è il nome di
Dio. Questo vuol dire cercare la pace come il futuro dei nostri paesi, delle guerre aperte;
ogni leader religioso, ogni credente, al di là della sua comunità, è chiamato ad essere
uomo di pace. Questo comporta la crescita della passione della pace, comporta la crescita
della forza di pace, capace di produrre idee nuove, rianimare i luoghi dell'incontro e
ribellarsi ai destini di guerra. Cari amici, vi do il benvenuto con grande gioia, ma sento
anche che questo incontro non è solo un incontro bello, ma rappresenta una necessità del nostro
tempo. Sono passati 30 anni, da quell'86, quando cominciammo il nostro cammino; alcuni
di noi, naturalmente, sono invecchiati, ma è aumentata la convinzione, in noi, che la
guerra è la più grande stoltezza, e il dialogo e la medicina dei conflitti. E ancora più
di ieri,
oggi siamo convinti che la pace è un grande ideale, che può ispirare non solo politiche,
ma anche esistenze umane. Sì, la pace è un'ideale calpestato, in alcune parti del
mondo, ma deve risorgere. La pace è il grande ideale per società svuotate e senza ideali.
Il nostro ideale è che la pace è il futuro."
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